Tre romani, polemici, arrabbiati e sempre affamati. Ricette, illustrazioni e recensioni oneste.

Pajata: questione di chimica

*****DISCLAIMER*****

Se siete facilmente impressionabili, consigliamo la lettura di questo articolo dopo aver già consumato il piatto in esame e in generale, solo dopo i pasti

E questa? E questa è merda…merda de vitella” diceva il Marchese del Grillo alla curiosa Olimpia nella celebre scena del film di Monicelli. Potrebbero non essere invitanti se presentati in questo modo, eppure una giovane Caroline Berg mangiava “a quattro ganasce” una porzione di rigatoni con la pajata, prima di scoprire la vera identità del piatto che l’oste le aveva posto dinanzi. Ma è davvero così terribile, ciò di cui si compone l’ottava meraviglia della cucina popolare romanesca? È davvero la “merda” l’ingrediente principale che da consistenza e gusto ad una delle portate più iconiche del panorama culinario capitolino? Scopriamo insieme di cosa è fatta la pajata (o pagliata, in italiano), quali sono i processi chimici per ottenerla, insieme a qualche cenno storico.

Viaggio nel corpo (non) umano

Il termine identifica l’intestino tenue del vitellino da latte o del bue, che viene utilizzato insieme al sugo, soprattutto per il condimento di un particolare tipo di pasta: i rigatoni. In questo caso, si preferisce utilizzare il secondo tratto dell’intestino tenue denominato “digiuno” (la sua sezione centrale, preceduta dal duodeno e seguita dall’ileo nella maggior parte dei vertebrati, inclusi i mammiferi, i rettili e gli uccelli). La ricetta tradizionale vuole che l’intestino venga lavato, ma senza essere privato del cosiddetto “chilo”, una sorta di latticello bianco al suo interno, che darà forma ad una salsa dal sapore acre e forte e alla quale verrà aggiunto il sugo di pomodoro. Derivato dal chimo (ed è qui che acquistano un senso le lezioni di biologia che non hai seguito al biennio di quell’istituto tecnico), è il liquido lattiginoso raccolto dai vasi chiliferi nell’intestino tenue, durante l’assorbimento intestinale delle sostanze nutritive da parte del vitello da latte (il quale viene eletto a tale scopo proprio in virtù dell’esclusiva dieta liquida, nelle prime dieci settimane di vita circa). Per essere ancora più chiari: è il latte digerito dal vitello. Non saranno fiori profumati, ma il suo sapore unico rende un semplice piatto di rigatoni al sugo un’esplosione di gusto, che vale la pena assaggiare una volta nella vita. Provare per credere. Ad ogni modo, l’utilizzo di tale ingrediente appartenente alla categoria del “Quinto Quarto” (le frattaglie), è diffuso in tutto il centro-Italia e sebbene la preparazione classica preveda l’uso della salsa di pomodoro, può essere consumata anche in bianco, come secondo piatto cucinato al forno, in umido, o alla brace (tipicamente in Umbria, specialmente nelle zone della Valnerina, di Terni, Spoleto e Foligno e nelle Marche, nelle zone di Ancona, Camerino, Fabriano e Macerata).

Rione XX

Tradizionalmente a Roma, i primi piatti a base di pajata vengono attribuiti agli “scortichini”, gli antichi lavoranti del Mattatoio di Testaccio, risalente al 1888. Chiamati anche “vaccinari”, avevano il compito di scuoiare i bovini. Questi operai venivano pagati miseramente per il loro duro lavoro, con pochi spicci e/o col “Quinto Quarto”, ossia gli scarti consumabili ma meno pregiati delle carni macellate del bovino (interiora, coda, zampe, lingua ecc.), che alla fine dell’800 costituirono la base per i piatti più iconici della cucina romana: oltre alla pagliata di vitello, troviamo la coda alla vaccinara, la lingua in salsa verde, la trippa al sugo ed altri. Con i loro sacchetti di carne, gli scortichini si recavano nelle vicine osterie della zona e chiedevano che gli scarti degli animali venissero utilizzati per preparare piatti poveri ma sostanziosi, per sfamare le proprie famiglie. Nacquero così i rigatoni al sugo con la pajata e le altre ricette già citate. Secondo alcuni storici, l’ampio uso del Quinto Quarto nella cucina della Capitale, si deve all’influenza della tradizione ebraico-romana, o giudaico-romanesca. Le interiora godettero di un ampio consumo per quasi tutto il Settecento, ma questo iniziò a declinare proprio alla fine del secolo, quando cominciarono ad essere usate solo dalle classi più povere che vivevano vicino ai mattatoi. Questo tipo di cucina, si concentrerà dunque prevalentemente a Testaccio.

Mucche encefalitiche

Nel periodo di massima diffusione della malattia conosciuta come Mucca Pazza o Encefalopatia Spongiforme Bovina (1996-2005), la paura di contrarre il virus tramite il consumo di carne bovina portò al divieto di vendita del cervello, della carne non disossata del vitello e di altri suoi tagli (tra cui le interiora), che potevano fungere da possibili vettori per l’uomo della proteina patogena detta “prione” (responsabile del morbo), facilitando così la diffusione di una versione alternativa della pietanza a base di intestino di agnello. Nonostante il divieto di vendita sia terminato nel 2005, successivamente gli intestini potevano essere venduti solamente puliti, svuotati e sbiancati, almeno fino all’emanazione del Regolamento dell’Unione Europea 2015 N° 1162, con il quale si è potuti ritornare a commerciare il tratto con all’interno il chilo. Fu il ritorno della vera pajata. E questo perché l’Italia fu dichiarata “a rischio trascurabile” per questa malattia. Recitava parte del testo: “L’ Italia con Giappone, Israele, Olanda, Slovenia e Usa, fa parte della ristretta cerchia di 19 Paesi, sui 178 aderenti all’Oie (l’Organizzazione mondiale della salute degli animali) ad aver raggiunto questo obiettivo”. La modifica del regolamento avvenne a Bruxelles, con il voto favorevole del Comitato permanente vegetali, animali, derrate alimentari e mangimi in seno agli organi dell’Unione, nella serata del 17 marzo 2015.

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